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Lucio Barbera (2010)

Non l'entusiastica euforia di Boccioni di fronte alla città (Milano) che sale, ma neppure l'atterrito smarrimento del coetaneo Hopper di fronte alla città (New York) che era già salita. Con diverso spirito, assolutamente personale pur se nutrito di cultura visiva e di una lacerata sensibilità, Giuseppe Puglisi da anni affronta il tema del "paesaggio urbano"; con altra intenzione e da un altro punto di vista. Come nuvola
solitaria, lontanissima in uno spazio infinito, l'artista guarda la città dall'alto, dando vita non a paesaggi urbani, ma a commosse visioni, che portano con sé echi di incubi e onirici abbandoni.
In una struttura di matrice architettonica, con un taglio da urbanista capace di catturare i reticoli delle strade e l'allineamento dei palazzi, questa città potrebbe pure essere la sua Catania, ma soprattutto è un luogo possibile solo sulla tela.
È una città della mente che appartiene ad un pensiero ben radicato in qualche angolo della sua anima, al di là di un effettivo e lucido ricordo.
È solo un "ovunque" perso nel labirinto dei suoi sogni, paesaggi urbani che, come giustamente dice Paolo Nifosì, "evocano memorie, passioni consumate, in cui i bagliori dei fuochi trapassano e si avviano a diventare cenere".
Ed infatti queste città sdraiate, perfettamente inserite in una astrazione prospettica e viste nella loro totalità (come nel dipinto del 2007) o, a volte, come in "Città" del 2005, semplice agglomerato sperso in una resistente natura, nel momento stesso in cui figurativamente si compongono ed appaiono, sembrano disfarsi in qualcosa di indistinto, per mostrasi come brace di fuoco, eco di suono, traccia di qualcosa. Lontano dai clamori delle strade, dalla stessa presenza umana, e quasi liberato dall'affanno del vivere quotidiano, l'artista rivolge il suo occhio attento a luoghi non più vivibili, che si mostrano come una ferita inferta, una piaga rosata che in pieno manifesta l'incanto subdolo del pericolo.
Il pericolo di una perdita, di una comunicazione non più possibile, del tramonto non più del sole, ma dell'uomo.
A tanto Giuseppe Puglisi perviene per via di una pittura complessa e dai toni bassi che la sua arma segreta ha nel colore, anzi nei colori, con accordi struggenti fino allo sfinimento che penetrano all'interno delle forme che, quasi ubriache, barcollano.
Se davvero cultura è tutto ciò che resta dopo aver dimenticato quello che si è appreso, di una grande cultura visiva è dotato Puglisi, che ha saputo cogliere gli echi dell'impressionismo, i riverberi turneriani, gli impasti di Fautrier, le malinconie di Lorenzo Tornabuoni, la tessitura tramata di Franco Sarnari, quel momento in cui le "Ninfee" di Monet hanno anticipato l'Informale e lo stesso Informale, ravvisabile in quelle muffe e in quei raschi delicatissimi che innervano le sue terre, i suoi ocra, i suoi cobalti.
Tutta legna che arde per un fuoco che è solo dell'artista catanese che, come Jonathan Guaitamacchi ma con esiti diversi, si inserisce, con una cifra assolutamente individuale, tra quanti hanno affrontato di recente il tema del contesto urbano. Non protesta e non rinuncia Puglisi, ma piuttosto, in preda ad un lirico delirio, ci dice che dietro i lacerti luminescenti delle sue ossessive visioni, la città che non si vede è un brulicare tragico e crudele.
E lui oppone la dolcezza infinita della sua pittura, di cui un vero capo d'opera è il piccolo "Ritratto di Pia Maria" del 2003, prezioso cammeo di pura pittura: non è un sapiente controluce, non è un'immagine preziosa che sfuma, ma una vera e propria "apparizione vivente", al punto che giustificato appare il timore che lei, Maria Pia, di cui si scorge una ciocca di capelli chiari, un profilo appena lambito da un tocco di luce, ed un elegante corpetto, possa all'improvviso andar via dalla tela. Scomparire. Per miracolo, come è apparsa.

Lucio Barbera
Giuseppe Puglisi
in Il Gruppo di Scicli
Taormina 2010

 


   
ESPOSIZIONI
   
PUGLISI
Il Mediterraneo
Coste e costellazioni

Genova, Palazzo Ducale
9-30 gennaio 2011
 
 
 
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